Non passa lo straniero
Investitori dall’estero e stadi di proprietà: una lunga storia di diffidenza.
Mercoledì sera si è completata, senza particolari sorprese, la rosa delle quattro semifinaliste di Champions League: Real Madrid, Chelsea, Paris Saint-Germain e Manchester City. Se la tradizione calcistica pone un netto solco tra i madrileni - vincitori di tredici edizioni della coppa più prestigiosa - e le altre tre squadre, fra le quali solo il Chelsea può vantare una vittoria finale, il minimo comune denominatore fra queste realtà è fin troppo semplice da individuare: i soldi.
Escludendo il triennio 2006/2009, Florentino Pérez si trova alla guida del Real Madrid dal 2000 e non può essere certo annoverato fra i nuovi investitori, mentre Roman Abramovich, Khaldoon Al Mubarak e Nasser Ghanim Al-Khelaïfi hanno fatto, in anni più recenti, le fortune dei propri rispettivi club, riversandovi mostruose quantità di capitali. A questo punto sorge spontanea una domanda: perché nessun imprenditore straniero con una tale disponibilità di liquidità si è mai avvicinato al calcio italiano?
Una questione magari non del tutto dirimente, ma perfettamente in grado di fotografare le difficoltà che una proprietà estera può incontrare in Italia, è quella relativa agli stadi di proprietà. Le uniche squadre attualmente in Serie A (o transitate nella massima divisione in stagioni recenti) ad avere un proprio impianto sono solo cinque: Juventus, Atalanta, Udinese, Sassuolo e Frosinone.
Come le semifinaliste di Champions, anche queste realtà così diverse fra loro sono accomunate da un particolare, che diventa importantissimo quando ci si trova ad avere a che fare con l’approvazione di progetti edilizi e il rilascio di permessi di costruzione: una proprietà estremamente legata alla città. Gli Agnelli a Torino, i Percassi a Bergamo, i Pozzo a Udine, la Mapei a Sassuolo e gli Stirpe a Frosinone hanno dato alle proprie realtà cittadine, nel corso dei decenni, un contributo che va ben oltre l’ambito calcistico. Forse è proprio in virtù di questo contributo che le amministrazioni comunali hanno ritenuto di non ostacolare Juventus, Atalanta, Udinese, Sassuolo e Frosinone nel loro obiettivo di avere degli stadi di proprietà.
Il caso del capoluogo ciociaro è poi particolarmente virtuoso, avendo la famiglia Stirpe rilevato un impianto comunale incompiuto che sarebbe potuto diventare una grave fonte di degrado per la città. Significative, in merito al rapporto tra Frosinone e la sua squadra di calcio, le parole del presidente gialloblù Maurizio Stirpe: “Lo stadio è stato concepito per lasciare qualcosa al territorio. È stato fatto per i tifosi, che sono poi i veri proprietari di questo impianto. Noi siamo amministratori pro tempore, i tifosi restano”.
Ora, l’idea che importanti famiglie o imprese legate a determinate realtà territoriali possano lasciare qualcosa in eredità alla cittadinanza è sicuramente meritoria, ma questo modus operandi non può essere, nel 2021, l’unico ben visto dalle amministrazioni comunali quando si tratta approvare progetti e investimenti: sembra quasi di essere tornati all’epoca delle signorie.
Gli investitori esteri che desidererebbero dotare le proprie squadre di stadi di proprietà - si chiamino essi Suning, Elliott, Commisso o Friedkin - vengono guardati con sospetto e ostacolati in ogni modo possibile: forse ai nostri amministratori piace pensare che i progetti edilizi delle proprietà italiane siano privi di ogni tornaconto, al contrario delle fredde speculazioni degli “stranieri a cui interessa solo fare affari”. Speculazioni che per altro, al di fuori dell’ambito calcistico, vengono spesso accolte positivamente.
Le cose non migliorano quando, a questa malcelata forma di discriminazione, si sommano improvvise preoccupazioni di carattere ecologico, prontamente sopraggiunte dopo decenni di cementificazione selvaggia: emblematico è in questo senso il caso del nuovo stadio di Milano, che andrebbe a riqualificare notevolmente - pure in termini di quantità e qualità di verde pubblico - le parti meno attrattive del quartiere San Siro. Messo alla prova dei fatti, anche il capoluogo meneghino dimostra di soffrire del tipico provincialismo di matrice italica, ossia quella fiera illusione di essere impermeabili al mercato globale che ha come unica conseguenza, in ogni ambito, una tragica perdita di competitività.
Le ultime edizioni della Champions League sono lì a ricordarcelo.