“Non è tanto chi sono, quanto quello che faccio che mi qualifica”
(Bruce Wayne si rivela come Batman a Rachel Dawes, scena finale di "Batman Begins". Anno 2005).

“Non è tanto chi sono, quanto quello che faccio che mi qualifica”. Ci sono frasi e scene, tratte da libri o film, che ci restano appiccicate in testa per tutta un'esistenza. Questa frase di Batman Begins, insieme all'incipit del film, rientra assolutamente tra quelle. E ha riecheggiato nella mia mente per tutta la serata di ieri e nella mattinata. È ciò che facciamo che ci qualifica e, aggiungo io, è il modo in cui trattiamo certe notizie, che ci qualifica. Ho pensato e ripensato all'opportunità di scrivere o meno questo pezzo. Ho pensato e ripensato anche al fatto che mi sarei ritrovato a scriverlo in prima persona, contravvenendo a tutto ciò che mi è stato insegnato (gli editoriali si scrivono in 3a persona, bla bla bla). Eppure eccoci qua. Ci sono eventi che semplicemente non possono lasciarci indifferenti: il malore in mondovisione di Christian Eriksen, di cui non si conosce ancora la vera causa (medico della Danimarca dixit), rientra tra quelli.

Un evento che ha commosso tutti gli appassionati di calcio, lasciandoli sotto shock per ore. Molte persone con cui ho parlato mi hanno svelato, con un pizzico d'imbarazzo, di non essere riusciti a dormire stanotte: le immagini del malore di Christian Eriksen, giocatore che può far parte della tua squadra o meno, ma è apprezzato universalmente per la sua tecnica ed eleganza, riecheggiavano nella loro mente. Chi vi scrive ha raccontato parte delle sue emozioni nel recap di ieri sera, e non si vergogna affatto a dire di aver pianto, quando tutto sembrava volgere per il peggio e non c'erano notizie. Eriksen ha giocato titolare in pianta stabile da febbraio in poi, è vero, ma la sua classe e la sua personalità avevano conquistato gli interisti settimane prima: tecnica sopraffina, umiltà pari a quella tecnica, grinta e carattere di chi voleva prendersi l'Inter e c'è riuscito. In quei momenti Eriksen era un fratello, un amico, un conoscente. Uno di noi che rischiava di perdere la vita in modo terribile, un ragazzo di 29 anni che avrebbe lasciato due figli, di cui uno di pochi mesi. E la situazione, da ragazzo di 29 anni che aveva vissuto da spettatore in gioventù le tragedie (diversissime per dinamica) di Piermario Morosini e Marco Simoncelli e le ricorda tuttora come fossero accadute ieri, non poteva lasciare indifferenti.

Riacquistato il controllo dopo l'arrivo delle prime notizie confortanti, da giornalista pubblicista mi sono (e, come me, molti colleghi) limitato a riportare le notizie in arrivo dalla Danimarca, senza esprimere congetture e/o pareri personali. Non mi aspettavo che tutti facessero lo stesso, ma non mi aspettavo neppure di assistere ad atti deprecabili da parte di testate più o meno autorevoli. Il trattamento della vicenda-Eriksen deve farci riflettere su ciò che siamo diventati, e ha dato vita ad atti di caccia al click che hanno indignato i tifosi e non solo. Senza l'azione dei giocatori della Danimarca, che si sono messi a scudo davanti ad Eriksen per impedire che venissero riprese tutte le fasi della rianimazione sul terreno di gioco, avremmo assistito alla “resurrezione” (parola usata dal medico della Danimarca) in mondovisione. Un voyeurismo inaccettabile, che rischiava (e cercava) di trasformare la lotta per la vita in uno spettacolo televisivo. E ci fermiamo qui, prima di dire cose di cui potremmo pentirci, facendo notare il modus operandi consolidato di F1 e MotoGP: in caso di gravi incidenti, che comportano l'intervento sul posto dei medici e paramedici, si staccano le immagini per evitare di trasformare il dolore in uno spettacolo. È successo col povero Jason Dupasquier, succede da anni. 

Il voyeurismo e la caccia al click, però, sono andati oltre questo semplice episodio. Il Corriere, maggior quotidiano generalista nazionale (non quello diretto da Zazzaroni) ha pubblicato e ripubblicato le immagini della caduta di Eriksen e quel video in svariati post sui propri social. “Guarda qui la caduta di Eriksen”, “osserva il malore” e così via. L'immagine della moglie di Chris rassicurata da Kjaer e Schmeichel, invece, è stata declinata in termini fantasiosi: “Ecco chi è Lady Eriksen”, “Il volto di Sabrina, Lady Eriksen” e così via. Se vi è venuto un brivido o avete imprecato, vi sveliamo che abbiamo fatto lo stesso. Una reazione che è stata la medesima leggendo i tweet dei no-vax che attribuivano il malore al vaccino (spoiler: Eriksen non è vaccinato), o i post di sedicenti tifosi dell'Inter che a cinque minuti dall'accaduto si chiedevano già con chi sostituire Eriksen, facendo arzigogolate analisi tattiche. O, ancora, assistendo alla caccia all'intervista al rinomato cardiologo di turno che effettua una diagnosi “televisiva” senza avere sott'occhio gli esami di Eriksen. Passiamo al day after, e alle prime pagine: superlativo Tuttosport, l'unico ad evitare con sensibilità di riprendere la foto di Eriksen a terra e/o in Barella. Una prima pagina in stile Equipe che ci ha restituito speranza nel giornalismo italiano: speranza che ha vacillato vedendo le “prime” di Gazzetta e CorSport, col danese semi-incosciente sulla barella (la foto che ha restituito speranza, ma andava davvero messa in prima?), ed è stata demolita dalla pagina 2 della Rosea. Il maggior quotidiano sportivo nazionale che sbatte lì la foto di Eriksen a terra con gli occhi sbarrati, l'immagine che aveva fatto temere a tutti il peggio. Nessun tatto, ma soprattutto nessun rispetto. Del giocatore e dell'uomo. Con giustificazioni che rappresentano la classica toppa peggiore del buco: “la foto andava messa”, “un'immagine storica” (paragonata a quella del bambino colpito dal napalm in Vietnam da una nota firma, in un tweet che ci rifiutiamo di riprendere), “così deve fare il giornalismo ecc ecc”. E poco importa se l'Italia intera è insorta, e da ieri ha mandato in tendenza l'hashtag #Vergognatevi su Twitter.

Quando si studia per diventare giornalisti pubblicisti (e, presumo, professionisti), viene consegnato da studiare un manuale di etica e deontologia della professione. L'esaminatore con cui andai a sostenere la prova orale mi fece riflettere su un interessante caso di studio: la sovraesposizione mediatica di Greta Thunberg, minorenne e dunque protetta dalla Carta di Treviso, rientrava in questi parametri etici e deontologici? Risposi (ovviamente) di no, e ne seguì un'interessante discussione. E ora mi/vi chiedo, a colleghi e semplici fruitori di questo modesto pezzo: il trattamento mediatico (sfociato in un'autentica “pornografia dell'immagine”) del malore e del precario status di salute di Eriksen rientra in questi parametri etici e deontologici. La risposta è altrettanto ovvia, e qui torna a colpirci come un gancio destro quella frase: non è tanto chi siamo, ma quello che facciamo che ci qualifica. E le ultime ore, seguite al malore di Chris, ci fanno riflettere. Come siamo caduti così in basso (riferimento alla categoria), al punto da mercificare la lotta per la sopravvivenza senza neppure chiederci se sia deontologicamente corretto o senza verificare che tutte le notizie riportate siano reali (mi riferisco alla foto del fantomatico saluto di Eriksen dalla finestra, che in realtà proveniva dalle visite mediche, lanciata sui social in pompa magna e subito rimossa)?

La risposta, forse, è impossibile da trovare. E questo ci causa una profonda amarezza, subentrata alla rabbia della prima ora.


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